L’interessata sarebbe praticamente passata dalla cassa (da morta) alla cassa (dell’INPS).
Per l’INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale), era già morta, dal 1° luglio, e quindi non aveva alcun diritto di incassare il suo assegno di invalidità.
Lei, la vittima, è M. M. (69 anni, residente a Napoli), sposata nel 1944 e vedova dal mese di giugno. Ha scoperto la sua « morte » quando la banca, dove è accreditato il suo assegno di invalidità di poche centinaia di euro al mese, ha chiamato a casa sua per chiedere ai suoi eredi a rimborsare «gli 800 euro come richiesto dall’INPS».
Per dimostrare di essere ancora in vita, M. M. è dovuta, nonostante il suo stato di invalidità, andare personalmente all’INPS, munita di un certificato di esistenza in vita, rilasciato dal comune di residenza. E lì ha poi scoperto che il disguido è stato causato da una singolare omonimia, vale a dire, una coincidenza di nomi: infatti ad essere morta era un’altra donna, ma con il suo stesso nome: M. M.!
«Non potevo credere di dover rimborsare loro 800 € perché ero morta», ha detto tirando un sospiro di sollievo M. M., già affranta per la morte del marito.
Tuttavia, lasciando da parte il dramma del caso, non si può non notare che a parte questa coincidenza di nomi, a volte la vita offre molte altre coincidenze a dir poco strane.
Infatti, la storia si svolge a Napoli, e parla di una morte che « sarebbe » tornata in vita: tanti ingredienti che rimanderebbero alla « smorfia napoletana » (numeri magici), perché se si aggiunge poi la sorprendente coincidenza del numero di anni di matrimonio della vedova M. M., è proprio il caso di dire «47! Morto che parla», o meglio (visto che stiamo parlando di incassare un assegno sociale), «47! Morto che in…cassa!» in quanto, in fin dei conti, l’interessata sarebbe praticamente passata dalla cassa (da morto) alla cassa (dell’INPS).
Milton kwami